memorie preziose

Cristina Acidini

Soprintendente per il Polo Museale Fiorentino

L’ispirazione artistica di Paola Crema ad ogni suo nuovo filone creativo non smette di stupire per la varietà, pur entro una coerenza di fondo, delle soluzioni tecniche ed espressive.
I preziosi pezzi unici che formano questa mostra, situata con felice esito nel Museo delle Porcellane per iniziativa della direttrice Ornella Casazza con la decisiva collaborazione dell’architetto Mauro Linari, favoriscono un’immersione particolarmente intensa nel mondo dell’artista. E non a caso parlo di immersione, poiché baluginanti sentori d’acqua trascorrono per l’intera rassegna di oggetti, non solo e non tanto per l’impiego di perle, madreperle e coralli, ma anche e forse soprattutto per la suggestione d’appartenenza a una civiltà diversa, latente e misteriosa, che (rubando un tema all’immaginario della Crema stessa) bene si potrebbe definire una sorta d’Atlantide. Intendiamoci, un’Atlantide nostrana, dove si parla fiorentino: un’Atlantide d’Arno, dove siano sprofondati secoli fa gli assistenti e i seguaci di Benvenuto Cellini e Bernardo Buontalenti (pensiamoli come una nuova razza di tritoni, somiglianti a quelli squamosi e branchiati eppure innocui di Pietro Tacca), ancor oggi al lavoro in antri fluviali da dove inviano magicamente alle sponde d’Oltrarno coppe, saliere, candelabri e ogni genere di splendori.
Una grande abilità tecnica, specie nella lavorazione dell’argento a grani, a ciottoli, a grappoli cavi di organico plasticismo, è messa al servizio di un fasto immaginoso. Un fasto nutrito però di cultura figurativa profondamente assimilata, grazie all’instancabile e ricettiva indagine dell’artista su tutto ciò che non solo è bello, ma racchiude nella propria bellezza il lampo oscuro di una bizzarria, di un eccesso, di un sogno pronto a mutarsi in incubo. E così la conchiglia che genera un volto umano sembra una “allegoria” fuggita da un quadro di Giovanni Bellini, e le composizioni di valve d’ostrica perlifera con cristalli di rocca creano intorno a sé l’atmosfera erudita e affascinante di una Wunderkammer dei nostri giorni.
Artista di fama internazionale, Paola col marito Roberto Fallani ha scelto di lavorare e vivere a Firenze. E di questa sua scelta, che ci permette di ospitare le sue opere nel giardino che fu dei Granduchi e dei Re in amichevole e naturale contiguità con il suo studio, le siamo davvero grati.

Ornella Casazza
Direttrice del Museo degli Argenti e del Museo delle Porcellane

Per Paola Crema l’arte del passato può ancora orgogliosamente rivelare qualcosa di vitale in ogni direzione che la sua memoria recupera e ripercorre con la suggestione del ricordo: memorie arcaiche ritornano in queste preziosità e bizzarrie madreperlate al Museo delle Porcellane di Palazzo Pitti.
Le soste più “emotive” le ha fatte nei musei, e soprattutto al Museo degli Argenti a contatto con gli oggetti che gli inventari dei beni di Lorenzo il Magnifico menzionano come manufatti “all’indiana”, o provenienti dalla “Nuova Spagna” (come veniva chiamato il Messico) stabilendo con le collezioni antiche permanenti un dialogo stimolante dove si incontrano conciliandosi sintonie e contrasti.
Materiali e forme, splendori di regge che via via si sono chiariti nella sua anima, divengono caratteri basilari per la sua individualità artistica e quindi il segno del suo riconoscimento.
È proprio da qui che ha inizio in effetti il suo nuovo percorso: la materia cede alla sua volontà e le vibrazioni della sua complessa vita interiore si fondono e si identificano con la bellezza delle madreperle, delle perle naturali, delle giade, dei cristalli, del chiarore metallico dell’argento in figurazioni che “ricordano metamorfosi mitologiche”, come ha ben sottolineato Paola Luciani, sua attenta critica e biografa, parlando dei meravigliosi gioielli che Paola Crema ha recentemente donato alla nuova sezione permanente del Gioiello Contemporaneo del Museo degli Argenti.
Ripropone qui ancora il leitmotiv della sua poetica scultorea e “realizza una straordinaria mimesi della realtà, sottolineando con coraggio l’entità di una materia madreperlacea, passando con disinvoltura da sperimentazioni di un evidente descrittivismo realistico a meditazioni e suggestioni di cultura simbolista” (P. Luciani, Paola Crema, in Sculture da indossare, a cura di O. Casazza, Pisa 2007, p. 47).
Le sue opere giocano sulla modificazione della forma e della simbiosi di una materia con un’altra: al ritrovamento del frammento di natura, l’affascinante custode di memorie arcaiche, accosta incrostazioni di argento, cristalli di rocca e coralli rossi dai quali affiorano solenni divinità marine dal volto non più mostruoso ma reale che conserva ugualmente significati apotropaici e scudi magici contro le forze malefiche, dialogando con l’osservatore che potrà attingere ai ricordi di memorie di epoche perdute.
Fantasie di mondi acquatici dove l’evoluzione biologica ha iniziato quel misterioso processo che rinnova ininterrottamente il miracolo della vita sono evocati attraverso complesse lavorazioni e scelta di materiali che grazie ai loro preziosi effetti cromatici e sfumature, provocano nuove originali sensazioni, anche quando una sua opera sembra ritenere di una maniera già espressa o conosciuta, perché capace ancora di ricreare una nuova, affascinante e possibile competizione tra Natura e Arte.
Non meraviglia pertanto che queste “sculture” abbiano sollecitato vari accostamenti, volti a ricreare nella fantasia lo svolgimento di un antico spettacolo e non stupisce ritrovarli immortalati assieme, in primo piano, davanti alle più belle porcellane europee conservate nelle sale della Palazzina detta ‘del Cavaliere’, sulla sommità di Boboli.

Lo sguardo prensile
Giuliano Serafini

Tra ornamento puro e scultura, l’opera di Paola Crema non è mai riuscita a rinunciare, nell’atto, a una volontà d’ibrido, di contaminazione, di suggestivo e spesso prodigioso pastiche. Una sorta di vertigine o di sindrome che se è di ieri – ed è tutta verificabile in questi lavori presentati al Museo delle Porcellane – trova nell’importante e monumentale produzione plastica dei bronzi recenti, la sua esplicitazione paradigmatica, il suo approdo naturale.
Tutti i grandi stili ‘di transito’, come il Manierismo messaggero del Barocco, o l’Art Nouveau che con la sua spontanea convergenza nel Déco ha aperto la strada al moderno, o meglio, alla coscienza estetica del moderno, si connotano di questa ambiguità della forma e dunque della ‘perversione’ di una misura che genericamente chiameremo classica e che altrettanto genericamente risponde ai criteri istituzionali dell’equilibrio tra le parti, dell’ordine simmetrico, del rigore delle proporzioni, insomma al sacrosanto ‘canone’.
Il fantastico, sempre, richiede invece una sregolatezza dell’invenzione plastica che guarda piuttosto a valenze ‘espressionistiche’, anche se si tratta, come è il caso di Paola Crema, di oggetti ornamentali a loro volta derivati per filiazione diretta dalla produzione di gioielli che oggi non vengono esposti. E allora torniamo a quell’urgenza di contagio tra stili, materiali e forme che ha poi il proprio denominatore comune (una ‘regola’ anche qui, dunque?) nella tensione dinamica di cui si alimenta, nella potenzialità metamorfica di cui ha bisogno per manifestarsi.
Freud scrive: “La felicità si nutre di presente, il significato di passato”, aforisma che altro non ribadisce se non l’eterna antinomia tra natura e cultura, e che Pierre Hadot, in Le voile d’Isis riconosce non a caso al dualismo tra pratica orfica (quella della poesia e dell’arte) e pratica prometeica (quella scientifica e razionale). E questo perché in qualche modo la natura ci possa ‘rispondere’.
Una citazione che non sarà poi così azzardata chiamare in causa per i presenti lavori di Paola Crema, là dove il fattore della felicità e dunque del presente di cui appunto la felicità necessita per avverarsi e sussistere, si traduce chiaramente nella componente fortemente edonistica dell’opera, mentre il ‘significato’, e dunque il tempo e il mito cui l’opera stessa evidentemente allude, costituiscono il suo lato simbolico e simbolista.
Ed è in effetti entro questo dilemma, nell’irriducibilità dei termini in causa, natura-cultura, che si collocano le creazioni di Paola Crema, eredi fin troppo di uno sguardo che ha transitato negli stili antiquari più fuori moda e, se si potesse dire, sempre d’avanguardia, durante la lunga pratica professionale che ha preceduto e preparato quella artistica.
Il suo occhio ha sempre investigato negli interstizi del bello, prensile e anticipatore, inesorabile nella rivelazione e rilevazione estetica, riducendo l’esperienza e l’emozione del momento in un prodotto d’alto eclettismo che somiglia a un diritto acquisito, a una necessità con cui prima o poi doveva fare i conti.
Un istinto infallibile le ha permesso di collezionare l’eccellente, il ‘diverso’, costasse questa scelta un gusto tanatologico, comunque tematiche allusive a una perdita, a una nostalgia senza ritorno d’antico, ad un’in autenticità così dichiarata da non poter non sconfinare, come per affinità elettiva, nel simbolo.
È in fondo da questa antica consuetudine visiva che nascono, tra il minerale e l’organico, queste stupefacenti sintesi dove l’elemento figurativo, quasi sempre riscontrabile, affiora ed emerge, sfiorando il trompe-l’œil, dalla rutilante massa delle colature d’argento, da schegge di quarzo, di ametista e corallo, da strati di perle che sembrano ostentare il loro specifico originario, come se tutto ci apparisse sedimentato per una propria fenomenologia geologica e si rivelasse nel momento stesso della prima riesumazione.
Sono enigmatiche maschere neutre, divinità ctonie e marine medusee e sfingee, che Paola Crema elabora da uno stesso stereotipo, sontuosamente incoronate da conchiglie nautilus, pterie margaritipherae e da conchiglie a specchio e dischi di madreperla che si confrontano con lo splendore lucente dell’argento, mutuando da esso riflessi e bagliori, ma anche consistenza fisica e materica, fino a risolversi per lo sguardo (ma anche per il tatto, la cui tentazione, confessiamolo, diventa assai forte nell’osservatore) in un’avventura percettiva.
L’artista ci inizia insomma all’inesauribile percorso ogni volta rinnovato attraverso un seducente universo magmatico, remoto e impassibile dove il significato di cui parla Freud, appare come svuotato dall’eccesso di significati che la storia dell’arte e del gusto, così come il mito, la letteratura e la nostra memoria collettiva, gli hanno imposto. Ma l’arte, e Paola Crema lo sa benissimo, è sempre ‘altrove’.

La metamorfosi del ricordo
Dora Liscia Bemporad

L’amore per Firenze, l’attività di antiquaria e gallerista, infine quella, non ultima, di collezionista di gioielli contemporanei sono alcuni dei fattori che stanno alla base delle opere di Paola Crema. Ma soprattutto vi è una conoscenza profonda e sentita del passato che riaffiora continuamente e che solletica curiosità e memorie in un rimando continuo, che diventa un gioco affascinante e coinvolgente. Per questo l’artista (nonostante il sentimento di insofferenza mostrato nei confronti di chi ha permesso di scempiare Firenze e davanti a cui non è stata mai inerte) ha radici profonde nella cultura della città, poiché ne ha assorbito una delle più significative concezioni: ovvero che qualsiasi opera che esce dalle mani dell’uomo, indipendentemente dai materiali di cui è formata e dalla categoria a cui appartiene, è degna di appartenere al mondo dell’arte. Scriveva Marsilio Ficino nella sua Theologia Platonica che “tutte le opere d’arte pertinenti alla vista e all’udito sono il frutto dell’intera mente dell’artista”, senza alcuna discriminazione, e di questa idea si fecero paladini i signori di Firenze i quali seppero tenere nello stesso conto sia le arti nobili, sia quelle che, pur essendo di dimensioni minori, erano tuttavia il frutto di una invenzione di straordinaria portata. Rimanendo ancora per un attimo legata all’analisi del passato (tuttavia punto di partenza imprescindibile per parlare dell’opera di Paola Crema), i mecenati ebbero la capacità di apprezzare l’arte sia nella sua accademica aulicità, sia, e soprattutto, nella sua originalità tratta dalla natura e dall’immaginazione degli artisti.
Se dobbiamo individuare la genesi dell’arte di Paola Crema, credo che sia imprescindibile riferirsi a quel periodo incredibile che è stato il Manierismo, non tanto nella sua accezione etimologica, quanto nella sua capacità di porsi in sintonia, armonicamente dissonante, con la natura e la materia. In opere plastiche dell’artista, in particolare i bronzi, è evidente il legame con alcune sculture del Giambologna, come ad esempio, con l’Appennino del parco di Pratolino, dove il granduca Francesco i e Bernardo Buontalenti applicarono i loro ideali di arte artificiosa e di natura bizzarra in uno dei capolavori assoluti di fine Cinquecento; in altre ancora, dove oggetti o animali sono parte integranti di forme eccentriche, il richiamo alle fantastiche invenzioni di Giuseppe Arcimboldo o del Tribolo è altrettanto lampante. Il volto della figura che trasformandosi in superfici squadrate si trasforma nei cristalli trasparenti, simili a obelischi egizi, di un blocco di quarzo, rievocano le sperimentazioni alchemiche che miravano a fondere il cristallo di rocca, uno dei fulcri attorno al quale ruotò la pseudoscenza di fine Cinquecento, così come i paguri che distillano perle creano la struttura stessa di preziosi calici, citando liberamente gli arredi liturgici creati da Cosimo Merlini nella prima metà del secolo successivo. Ma, nello stesso tempo, ritornano alla mente anche le sperimentazioni cubiste e le sculture di Boccioni che, comunque, trassero più che semplici spunti dagli stessi periodi storici.
La materia non viene lavorata o piegata ai voleri di un disegno, ma utilizzata nella sua qualità fisica e nelle sue caratteristiche naturali, integrazione e non cornice alle parti plastiche. Questo potere metamorfico, che Paola Crema ha riconosciuto negli oggetti naturali, diventa lo strumento della sua volontà espressiva. Così anche materiali relativamente preziosi come le madreperle delle conchiglie sono valorizzate nello splendore delle superfici e nella rarità, piuttosto che nel valore intrinseco, oppure il colore e l’effetto cangiante sono utilizzati per alludere alle opalescenze delle ali delle farfalle o a quelle delle pietre preziose.
In questo, da persona colta qual è, Paola Crema non ha attinto a certi momenti della tradizione artistica copiando le soluzioni messe in atto da altri, ma adattando alla propria sensibilità un metodo stilistico. Così l’attenzione dell’Art Nouveau alla metamorfosi delle figure o quella del simbolismo per un mondo metafisico inquieto e irreale sono certamente stati uno spunto, ma del tutto personalizzato da uno stile autonomo e riconoscibile.
Questa autentica originalità la si riconosce anche nella preferenza per certi materiali rispetto ad altri. Nei gioielli, l’oro non è amato dall’artista, poiché l’argento, freddo e lunare, meglio si accosta per contrasto ai colori delle giade, dei coralli, delle pietre dure, delle perle, ma nello stesso tempo si integrano in un tutto unico.
I richiami sono infiniti, ma proprio per questo l’arte di Paola Crema è assolutamente originale non solo nella sperimentazione continua di materiali, ma nell’uso che ne viene fatto. Originalità non nella bizzarria ma nella capacità di evocare richiami familiari e nello stesso tempo nuovi, di abbandono ma nello stesso tempo di asprezza, di pace e di inquietudine, un gioco di contrasti che spinge ad andare più in là della esperienza visiva, poiché il tatto avrebbe per lo spettatore lo stesso valore conoscitivo. Passare le mani sulle superfici, che dalla levigatezza dei volti, passano alla scabrosità delle perlinature, dal freddo del metallo al tepore della madreperla, dalla durezza dell’argento alla morbidezza delle conchiglie, provoca le stesse sensazioni di una conoscenza mentale.
Per tutti questi motivi, l’arte di Paola Crema non può avere né seguaci, né imitatori; è irripetibile e indipendente perché è frutto del suo essere se stessa, con la sua eredità di conoscenze e di esperienze umane e intellettuali.

 
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